La mia attività di ricerca nel campo delle neuroscienze riguarda soprattutto tre filoni.
Il primo è il rapporto mente/corpo e mente/cervello e l’analisi del problema, ampiamente discusso, della legittimità o, quanto meno, dell’utilità del ricorso a un vocabolario mentalista. Numerose e diffuse sono le posizioni che propendono per una sua eliminazione. Queste posizioni si basano sul presupposto che le interazioni che un organismo vivente intrattiene e sviluppa con l’ambiente non richiedano per nulla la mediazione e l’intervento di una mente come dispositivo computazionale-rappresentazionale, ma siano dirette e immediate (nel senso, appunto, dell’assenza di mediazioni o di un agente “terzo”, la mente o qualsiasi altra entità, che si “interponga” tra esse). Secondo questo punto di vista la percezione può essere descritta e spiegata come un meccanismo che estrae direttamente informazione dal mondo, senza mediazioni d’alcun tipo, attraverso un rapporto che è in qualche modo assimilabile a una mera reattività, sul corpo della quale si possono poi innestare (e, di fatto, s’innestano) meccanismi correttivi e integrativi del tipo di quello descritto, a suo tempo, dal fisiologo russo Sečenov con il ricorso all’inibizione e il conseguente emergere di un processo intermedio, più o meno prolungato (che però non richiede l’intervento d’alcuno specifico ente intermedio) tra lo stimolo e la risposta. Il fatto che l’interazione del sistema vivente con l’ambiente non si svolga in tempo reale, e che la decisione sia differita, non può quindi essere assunto come prova dell’incidenza e dell’azione di strategie di problem solving, di complicati processi di elaborazione dell’informazione che avvengano all’interno del sistema medesimo e che costituiscano un’eccezione rispetto alla validità generale dello schema stimolo-risposta. In questo caso, anziché trovarci di fronte a un qualcosa che avviene automaticamente e immediatamente, abbiamo a che fare con azioni differite e automatizzate, frutto di un periodo più o meno prolungato di apprendimento, grazie al quale riusciamo ad attivare meccanismi ulteriori, sempre presenti nel nostro cervello (come i centri di inibizione di cui parla Sečenov) che rendono più complesso lo schema originaria e introducono, all’interno di esso, una serie di alternative che articolano l’attività riflessa, senza però uscire dalla cornice del riferimento a un feedback diretto con l’ambiente.
Il risultato che emerge da più di un secolo, ormai, di discussioni sull’argomento dà ragione a Sečenov su un punto: la sterilità, o, perlomeno, la parzialità e l’unilateralità di qualsivoglia tentativo di studiare la mente prescindendo dal riferimento al cervello, ai suoi linguaggi, alle sue modalità di funzionamento. Sembrano peraltro esservi, a sostegno invece delle posizioni di Dostoevskij, buoni motivi per attribuire una qualche autonomia ai fenomeni e processi mentali, senza per questo riproporre un dualismo mente/corpo. Damasio, ad esempio, cui si devono recenti e assai stimolanti contributi su questo tema, ritiene non solo possibile, ma utile mantenere “due livelli descrittivi, uno per la mente e uno per il cervello. E’ una semplice questione di igiene intellettuale e non è una conseguenza del dualismo. Mantenendo livelli distinti di descrizione, non intendo suggerire che esistano sostanze separate, una mentale e l’altra biologica, ma soltanto riconoscere nella mente un processo biologico di livello elevato, che richiede e merita una propria descrizione per la natura privata della sua comparsa e perché tale comparsa è la realtà fondamentale che dobbiamo spiegare. D’altro canto, descrivere gli eventi neurali con il vocabolario giusto fa parte dello sforzo di comprendere come tali eventi contribuiscano alla creazione della mente”.
Questa posizione, molto equilibrata, mi pare del tutto condivisibile. Il riferimento alla mente, ai suoi processi e prodotti, dopo una fase di forte “presa” e richiamo dell’eliminativismo, sta via via riprendendo quota nelle modalità e nelle forme più diverse. Soprattutto si sta progressivamente affermando, anche sulla base degli sviluppi nello studio del cervello resi possibili dalle tecniche, vecchie e nuove, che consentono di visualizzarne in vivo l’attività (l’elettroencefalografia, la magnetoencefalografia, la tomografia a emissione di positroni, la risonanza magnetica funzionale) la convinzione che l’informazione non sia qualcosa di “dato” (o, meglio, non coincida semplicemente con il dato) ma debba essere estratta dall’interazione sistema vivente-ambiente attraverso un percorso che è molto difficile da spiegare basandosi solo su un rapporto diretto con l’ambiente medesimo e sulle risposte ad esso.
Questo riferimento alla mente può trarre, a mio parere, ulteriore forza e credito da una concezione alternativa, rispetto agli approcci di matrice cognitivistica, della natura dei suoi contenuti, che la veda non come sede di processi psicofisiologici o come teatro in cui si agitano credenze, desideri, emozioni, bensì come agente produttore di conoscenze e teorie. La sua autonomia rispetto al cervello può, infatti, essere meglio difesa e salvaguardata se la si considera una tipica realtà di confine, un’ “interfaccia” tra due mondi radicalmente differenti, quello fisico e quello della conoscenza, in tutte le sue manifestazioni, da studiare dal punto di vista dei suoi prodotti, e non soltanto, o tanto, da quello dei processi che si svolgono all’interno di essa.
Se partiamo, infatti, dal presupposto che la soggettività si formi e si sviluppi soprattutto nell’ambito dello scambio interattivo con il contesto, articolato e complesso, in cui il soggetto opera, costituito dall’ambiente fisico e dall’insieme degli agenti con cui egli si trova più o meno occasionalmente in relazione, la funzione che la mente assume nell’ambito di questa prospettiva non può che essere, in via prioritaria e preferenziale, quella di rappresentare lo strumento fondamentale di questa interazione. E se assumiamo il punto di vista, secondo il quale centrali, in quest’interazione, non sono gli stati e i processi mentali, bensì i “contenuti oggettivi” cui essi approdano, le strategie che sono elaborate al fine di avere il massimo successo possibile nel mondo, allora il cosiddetto “problema di Cartesio”, quello del rapporto tra mente e cervello, diventa il capitolo di una tematica più generale, concernente la relazione tra l’ambiente fisico e l’universo della conoscenza.
Sulla base di queste considerazioni possiamo allora dire che ciò che caratterizza la mente è il suo ruolo di “barriera di contatto” tra questi due mondi. E’ proprio questa sua posizione peculiare che ci consente di assumerla come quel particolare “operatore” che svolge una funzione “creativa”, grazie alla quale produce “teorie del reale” che sono in grado di “retroagire” sull’operatore medesimo e sulla sua attività di produzione, migliorandoli. L’attribuzione alla mente di questa funzione di interfaccia tra mondo fisico e universo della conoscenza, tra l’altro, sembra rispondere bene all’idea, esplicitamente avanzata in particolare nell’opera Il sogno di Dostoevskij. Come la mente emerge dal cervello, del 2002, che l’oggetto specifico della ricerca scientifica si formi proprio al confine tra il mondo reale e il nostro apparato percettivo e cognitivo e sia il risultato di una “funzione di accoppiamento” tra queste due realtà. Da questo punto di vista la mente può essere considerata una sorta di “interprete linguistico” fra il mondo fisico e il cervello. Essa non è sede di una riflessione visiva degli oggetti del teatro cartesiano che è in noi, ma di una incessante frizione tra contenuti del pensiero e realtà fisica, di uno sfregamento tra due dimensioni dell’esistenza che non si toccherebbero mai, se non ci fosse proprio la mente a consentire loro di sfiorarsi e di interagire. La mente non può quindi essere identificata con il cervello. Come scrivevo ancora ne Il sogno di Dostoevskij “per potere svolgere il proprio compito l’interfaccia non può identificarsi con alcuna delle due parti che deve mettere in comunicazione reciproca”.
Il secondo filone di ricerche riguarda la neuroetica che, comunque la si guardi, ha uno status duplice. Per un verso è una disciplina nuovissima e rapidissima, ma, per un altro aspetto, essa è un campo problematico classico, a lentissima maturazione, visto che affronta questioni capitali della filosofia e dell’epistemologia, della psicologia e della medicina, sino a invadere l’intera area “Scienza e Società” e lo studio della società della conoscenza.
Inoltre, se non può non occuparsi dei problemi tradizionali dell’etica tecnico-scientifica (tipicamente dei rischi e benefici delle nuove tecnologie sia nella cura sia nel potenziamento delle nostre disponibilità e capacità, come è già stato del resto per la bioetica), e dunque appare come un’etica delle neuroscienze, su un altro versante essa va diretta ai fondamenti di tanta parte del nostro pensiero, sia esso “dotto” o “quotidiano” (su temi quali mente/corpo, autonomia, intenzionalità, personalità, diritti/doveri, individualità/relazionalità, normalità/patologia, welfare, abitudine, memoria e altri ancora), per cui si presenta anche come una neuroscienza dell’etica.
Nata nell’ambito strettamente neuroscientifico, e dunque già a cavallo fra medicina, biologia e psicologia, la neuroetica ha rapidamente catalizzato l’attenzione di un crescente numero di filosofi, sociologi, giuristi, antropologi e studiosi dell’educazione, dell’informazione e della comunicazione. È, dunque, interdisciplinare per definizione, anche perché ogni disciplina, nessuna esclusa, emergerà almeno in parte rinnovata da un “bagno neuroetico”; e con questa impostazione di fondo il volume affronta il tema attraverso il contributo di studiosi di varie discipline.
Tutto ciò che è umano è naturalmente neurale, come tutto ciò che è neurale in noi è l’esito del nostro divenire storicamente umani. Per molti aspetti, dunque, la neuroetica può essere considerata come un esito non secondario del grande progetto darwiniano, quello che non sta solo nel, grandioso, Sull’origine delle specie per mezzo della selezione naturale o la preservazione delle razze favorite nella lotta per la vita, ma si respira anche in quell’altro capolavoro che è L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali.
Il terzo filone d’indagine, più recente, affronta i problemi posti da quello specifico incrocio tra epistemologia e neuroscienze costituito dalla neurocomunicazione, che prende avvio da una classica questione epistemologica, rivisitata e approfondita alla luce di ciò che ci stanno dicendo le neuroscienze sulla struttura e sul funzionamento del nostro cervello. Si tratta della questione relativa all’esigenza, che si sta manifestando sempre più come ineludibile, di pensare ciò che chiamiamo “oggetto della conoscenza” in maniera anfibia: sia come “oggetto della realtà”, “dato” e quindi come apertura dell’esperienza, “materiale” offerto al lavoro delle strutture percettive e cognitive; sia come “costrutto formale”, già trasformato in “oggetto della conoscenza”.
Questo problema generale viene affrontato, in particolare, guardando ai modelli attuali della comunicazione sociale e prendendo in considerazione il rinnovamento radicale che questi modelli, progettati per un mercato e per una determinata società di massa oggi al tramonto, stanno subendo per raggiungere i loro obiettivi anche in seguito alle più recenti scoperte nel campo della neurobiologia, dello studio della struttura e del funzionamento dei processi cerebrali e della teoria delle reti. Ciò che questo filone delle mie ricerche mira ad analizzare sono i nuovi processi e modelli della comunicazione sociale che interessano i “mass media”, la pubblicità, il marketing, sia quello di consumo che quello politico. Questi nuovi processi e modelli sono basati su una radicale revisione della comunicazione sociale, che viene considerata non più come un’attività lineare – caratteristica dei media di massa –, ma come un’attività che si sviluppa in uno “spazio intermedio”. In questo modo questo terzo filone di ricerca si collega alle mie ricerche epistemologiche sulla natura e sulla funzione del confine e agli studi nel campo dell’urbanistica sugli spazi intermedi, che emergono in molte forme, dove il confine tra urbs e civitas non si presenta più sotto forma di linea di demarcazione che separa, ma prende forma e consistenza, diventando una spazio di relazione e di comunicazione a due facce, una rivolta verso gli spazi fisici e l’altra verso spazi di possibile coesione sociale, una sorta di «interfaccia» che associa questi due spazi, anziché separarli.
Le Pubblicazioni su questo tema:
1. L’albero flessibile. La cultura della progettualità, Masson, Milano, 1997;
2. L’identità come bricolage temporale, Pluriverso, 4, 97, pp. 21-32;
3. La mente tra approccio naturalistico e simbolico, in S. Gozzano, (a cura di), I volti della mente. Coscienza, cervello e calcolatori, CUEN, Napoli, 2000, pp. 35-82;
4. Il sogno di Dostoevskij. Come la mente emerge dal cervello, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002;
5. Empatia e rappresentazione della conoscenza, ‘Atque’, n.25-26, maggio 2003, pp. 35-72;
6. Mente e cervello. Un rapporto problematico , in M. Fimiani, V. Gessa Kurotschka, E. Pulcini. Umano, postumano, Editori Riuniti, Roma, 2004, pp. 157-194;
7. Le due vie della percezione e l’epistemologia del progetto, Franco Angeli, Milano, 2005;
8. La «neuroetica» e il rapporto tra estetica ed etica, in A Cerroni e F. Rufo (a cura di), Neuroetica tra neuroscienze, etica e società, UTET, Torino, 2009, pp. 23-44;
9. Identità personale e neuroscienze, in S. Rodotà, M: Tallacchini, Trattato di Biodiritto. Ambiti e fondi del Biodiritto, Giuffré, Milano, 2010, pp. 323-360;
10. “Introduzione” a J. Timoteo Álvarez, Neurocomunicazione. Applicazioni delle scoperte neuro scientifiche alle scienze e all’industria della comunicazione, Aracne, Roma, 2014, pp. 13-41;
11. Neurocommunication at a crossroads between Epistemology and Neuroscience, in J. Timoteo Alvarez (ed), Social Neuroccumication. Applying the findings from Neurosciences and Network Theory to the Science and Communication Industry, Media XXI, Porto, 2014, pp. 15-22;
12. Il nodo Borromeo. Corpo, mente, psiche, Aracne, Roma, 2015;
13. La cura nello spazio intermedio tra il corpo e la psiche, ‘Atque’, n.16, 2015, “Le figure della cura: Pratiche psicoterapeutiche e pratiche filosofiche”, pp. 167-216.