Le mie riflessioni sui processi d’apprendimento si basano su quella che considero una svolta epocale, il passaggio dal cognitivismo al costruzionismo, che costituisce uno sviluppo e un approfondimento della teoria del costruttivismo, secondo la quale l’individuo che apprende costruisce modelli mentali per comprendere il mondo intorno a lui.
A utilizzare il termine costruzionismo e a spiegarne il significato è stato in particolare Seymour Papert delinea il termine costruzionismo in un documento intitolato Constructionism. A New Opportunity for Elementary Science Education definendolo: “Una parola che indica due aspetti della teoria della didattica delle scienze alla base di questo progetto. Dalle teorie costruttiviste in psicologia prendiamo la visione dell’apprendimento come una ricostruzione piuttosto che come una trasmissione di conoscenze. Successivamente estendiamo il concetto dei materiali manipolativi nell’idea che l’apprendimento è più efficiente quando è parte di un’attività come la costruzione di un prodotto significativo”. A giudizio di Papert, dunque, l’apprendimento è un processo di costruzione di rappresentazioni più o meno corrette e funzionali del mondo con cui si interagisce. Rispetto al costruttivismo, il costruzionismo introduce il concetto di artefatti cognitivi, ovvero oggetti e dispositivi che facilitano lo sviluppo di specifici apprendimenti.
Il costruzionismo sostiene che l’apprendimento avviene in modo più efficiente se chi apprende è coinvolto nella produzione di oggetti tangibili. In questo senso questo approccio è connesso all’apprendimento esperienziale e ad alcune teorie di Jean Piaget.
Secondo il costruzionismo, quindi, se esso viene correttamente interpretato e applicato, la questione fondamentale dalla quale non si può prescindere per trattare la questione della natura e dell’efficacia dei processi di insegnamento e apprendimento è quella del rapporto tra processi cognitivi e artefatti cognitivi.
Ciò significa, concretamente, che per rendere realmente efficace l’introduzione delle LIM e dei devices nell’attività scolastica occorre, in primo luogo, riflettere sulle tecnologie di fronte alle quali oggi ci troviamo e con le quali dobbiamo necessariamente fare i conti. Esse non sono soltanto un mondo di macchine, di attrezzi e congegni meccanici, di apparati fisici (l’hardware), o un insieme di regole, di programmi, di codici e di algoritmi necessari per far funzionare le macchine (il software), ma anche e soprattutto strumenti di costruzione di competenze e competenze e di socializzazione e organizzazione (il cosiddetto brainware o knoware).
Intese in questa accezione le tecnologie hanno un duplice scopo:
a) quello di sostenere e potenziare i processi percettivi e cognitivi soprattutto per quel che riguarda le modalità di elaborazione e di selezione dell’informazione in base a un criterio di pertinenza e le procedure per «estrarre» nuova informazione da quella già disponibile;
b) quello di semplificare e rendere più trasparenti e controllabili le relazioni all’interno di un determinato contesto sociale e, soprattutto, di attivare legami tra le sue componenti che consentano a esse di scambiarsi informazioni, comunicazioni e conoscenze, di lavorare e decidere insieme, di gestire in termini unitari processi che una volta erano possibili solo in sistemi che disponessero dell’unità di luogo, di controllo e di tempo.
Il costruzionismo prende marcatamente le distanze da ogni forma di «concezione salvifica» della tecnica e delle tecnostrutture improntata a un neo-determinismo tecnologico e basata sull’illusione che le nuove tecnologie configurino da sole servizi, processi, organizzazione, lavoro, culture.
Parliamo di illusione in quanto le tecnologie, vecchie o nuove che siano, non sono un sostituto dell’attività di gestione dei sistemi sociali da parte dell’intelligenza umana e della capacità di quest’ultima di governarne la transizione da un assetto corrente a una modalità organizzativa desiderata e migliore, ma una loro componente, che è in grado di sviluppare la propria forza solo se viene accompagnata e sorretta da interventi di natura sociale e culturale.
I tre aspetti e stadi della tecnologia indicati sono interdipendenti, si determinano e si influenzano reciprocamente, le loro relazioni sono circolari (e non lineari o gerarchiche): ciascuno di essi è ugualmente importante e necessario.
Questa concezione dei processi di insegnamento è fortemente incardinata sugli ambienti di apprendimento, la cui funzione è quella di fornire un «tessuto relazionale» all’interno del quale inserire i diversi tasselli della conoscenza. Alla costruzione di questi ambienti è bene pervenire attraverso passaggi graduali, nei quali assumono grande rilievo le cosiddette «ontologie di dominio». Si tratta di forme organizzative che rappresentano e modellano la conoscenza del contesto, ad esempio disciplinare o tematico, in relazione al quale e in funzione del quale sono costruite. Sono l’anello ideale di congiunzione e mediazione tra gli atomi di base e gli ambienti di apprendimento in quanto, come i primi, sono scritte in un linguaggio neutro, attraverso una elaborazione incrociata del corpus degli argomenti da trattare (programmi ministeriali, manuali, libri di test o ecc.). Questa neutralità è fondamentale in quanto facilita la massima capacità di ricerca dei contenuti attraverso parole chiavi universali. I contenuti semanticamente annotati rispetto alle ontologie possono così essere reperiti attraverso un motore di information retrieval semantico, e possono essere proposti all’utente secondo formule di riaggregazioni «tagliate» sulle sue esigenze specifiche.
L’affermarsi di questa idea dei processi di apprendimento esige il riferimento a una progettazione didattica che si connoti come operazione aperta, disponibile all’attivazione di percorsi multipli tra loro interagenti, arricchiti da momenti di riflessione individuale e collettiva, pronta all’uso dello studio dei casi, del problem solving, della simulazione e di tutte le strategie che fanno ricorso a problemi autentici, situati, ancorati in contesti concreti e che proprio per questo non hanno soluzioni univoche e predeterminate. L’idea di fondo è che debbano essere lo stesso ambiente d’apprendimento reso disponibile, la stessa struttura dei materiali offerti e delle attività didattiche promosse, a innescare un processo conoscitivo rilevante per il soggetto che apprende, la cui esperienza si deve basare su di un processo di ristrutturazione continua e flessibile della conoscenza preesistente in funzione dei bisogni posti, di volta in volta, dalle nuove situazioni formative.
Una volta posta in questi termini la funzione degli ambienti di apprendimento,la questione da affrontare diventa quella di stabilire se l’aula, tradizionalmente concepita, sia l’ambiente più adatto nel quale situare oggi i processi d’insegnamento e d’apprendimento. Dare una risposta positiva a questa domanda significherebbe, curiosamente, azzerare la storia per quanto riguarda l’evoluzione dei processi suddetti, ritenendo che quanto serviva per i giovani di decine d’anni fa possa valere, senza mutamenti di sorta, anche per le generazioni attuali. Non voglio qui, di proposito, fare riferimento a tutta la corposa pubblicistica relativa ai «nativi digitali». Intendo porre una domanda molto più semplice e diretta, che consiste nel chiedersi se (ed eventualmente perché) la scuola debba rimanere estranea alla tendenza che si afferma ormai ovunque, negli uffici ma anche nella case, a potenziare lo spazio fisico di cui si dispone e nel quale si opera. Che cosa vuol dire “potenziare la realtà o aumentarla, come si preferisce dire”? Significa “riprogettarla”, creando ambienti ibridi naturali/artificiali che riescano a rispondere a nostri specifici bisogni meglio di quelli usuali. Lo fanno i ricercatori e i professionisti, ad esempio i medici, per i quali, per riferirci a uno specifico caso concreto, I laboratori di bioingegneria dell’università di Auckland hanno messo a punto un nuovo strumento sperimentale che analizza le immagini del cuore prese con la risonanza magnetica, le trasforma in una specie di film e le confronta con le immagini di un “cuore virtuale” dal funzionamento perfetto. Questo strumento di “realtà aumentata” appunto, è oggi a disposizione del Policlinico di Auckland: esso consente di mettere a confronto dinamicamente i film dei ‘due’ cuori mentre battono: il cuore del paziente (malato), da una parte, e il cuore virtuale (perfetto) dall’altra. Ed effettua un’analisi comparativa”. In questo modo, per il cardiologo, è più facile capire quale sia la parte del cuore del paziente che si muove in modo anomalo (tipicamente associato, ad esempio, al parziale blocco di una valvola) e intervenire di conseguenza.
Lo facciamo però, ed è questo che conta, tutti noi, nella nostra vita quotidiana, quando, sostituiamo alla normale scrivania “piana” di lavoro una scrivania virtuale tridimensionale, che grazie al computer e alla reti ci mette in condizione di disporre di un ambiente spaziale più ricco e in grado, per questo, di offrire molti vantaggi sotto il profilo della capacità di memoria per l’archiviazione e il recupero dei nostri documenti. Si tratta di un «aumento» che possiamo descrivere immaginando di partire dalla scrivania reale e dagli oggetti che normalmente si trovano sul suo piano d’appoggio, o all’interno dei suoi cassetti, e di sottoporli a un processo di “ciberizzazione”, tale da far assumere loro caratteristiche e comportamenti virtuali in grado di trasformarli in più efficaci supporti alla nostra normale attività. Operando in questo modo si procede a integrare senza strappi la realtà artificiale e virtuale in quella fisica e a calarla nel contesto tradizionale in cui le persone vivono e operano, facendone una parte di questo contesto, in grado di interagire costantemente con esso.
Lo facciamo, ripetiamolo perché giova farlo, ormai abitualmente nelle nostre case e nei nostri uffici, senza traumi, strappi e rigetti di sorta: perché, allora, dovremmo rifiutarci di farlo anche a scuola, sottoponendo le aule al medesimo processo virtuoso ed efficace di potenziamento, in modo da trasformarle in appositi spazi misti, naturali, culturali e artificiali, progettati per ambientare in modo appropriato i processi di insegnamento e di apprendimento? Se ci poniamo in questa prospettiva, che non mi sembra né rivoluzionaria né traumatica, la lavagna interattiva multimediale cessa di apparire un semplice sostituto solo un po’ più sofisticato e pretenzioso della vecchia lavagna d’ardesia, la cui introduzione parrebbe motivata solo dal desiderio compulsivo di innovare a tutti i costi, per diventare quello che realmente dovrebbe essere, e cioè non un semplice «contenuto» tra i tanti (cattedra, banchi, sedie`che fanno parte dell’arredo del «contenitore» aula scolastica), bensì, a sua volta, un contenitore di una quantità praticamente illimitata di nuovi ambienti virtuali che «potenziano» gli spazi fisici e interagiscono con essi come in un intrigante gioco di specchi. Il risultato di questo potenziamento, di questo «gioco di specchi» tra contenitore e contenuto e della dilatazione enorme che ne scaturisce, è, appunto, ciò che chiamiamo «ambienti d’apprendimento».
L’impossibilità, per la scuola, di prescindere dalla presenza, sempre più marcata, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e la concomitante esigenza di personalizzazione dei processi d’apprendimento comportano, per il docente, la costruzione di ambienti ad hoc (gli «ambienti d’apprendimento», appunto) e un più spiccato orientamento verso il processo di organizzazione della conoscenza. Ne scaturisce un «rovesciamento di prospettiva» dei processi d’insegnamento, caratterizzato dalla «decostruzione» del tradizionale impianto disciplinare, e dalla successiva «ricostruzione» del tessuto relazionale tra le nozioni e i concetti, in conformità a obiettivi selezionati sulla base del progetto didattico da attuare.
Gli artefatti messi a disposizione e resi disponibili dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione sono stratificazioni più o meno complesse in cui il sistema finale è composto da sottosistemi, ciascuno dei quali è a sua volta composto da sottosistemi di livello più basso e così via fino ai componenti di base. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione realizzano questo modello nel modo più compiuto e complesso. Dal silicio in su, fino alle applicazioni (Word, Excell, Facebook, suoni e immagini) ci sono parecchi strati. Ad ogni strato si aggiungono non solo nuovi oggetti (Hardware), ma anche nuovi programmi (Software) per gestirli e renderli “intelligenti”. Così l’informatica è il più complesso e flessibile sistema tecnologico mai esistito.
Solo i componenti di base (ad esempio i circuiti logici) sono inventati, progettati e prodotti sulla base di principi fisici. Ma nella creazione di sistemi il progettista e l’utente debbono operare una sorta di «assemblaggio» e, a partire dalle funzioni dei dispositivi di livello inferiore, che sono più o meno gli stessi a disposizione di tutti, debbono creare un oggetto di cui essi definiscono la struttura e il significato. LE metafore del LEGO o del Meccano aiutano a capire quello che succede.
La similarità tra questo tipo di procedimento e le modalità di selezione sotto forma di “mapping rientrante”, illustrate da Edelman, e il funzionamento della memoria ci fa comprendere in che senso il costruzionismo parli della possibilità concreta di una “nuova alleanza” tra metodologia didattica e tecnologia, nella quale gli artefatti intervengono come elementi e supporti di potenziamento dei processi percettivi e cognitivi e di innalzamento della loro qualità ed efficacia.
Qui di seguito le pubblicazioni relative al tema dell’apprendimento.
1. I problemi dell’apprendimento del linguaggio verbale, in A. Volpi, (a cura di), Apprendimento e comunicazione, Tecnodid, Roma, 1990;
2. Quando Einstein faceva i puzzle, ‘Dimensione Energia’, n. 50, gennaio-febbraio 1992, pp. 69-77;
3. I puzzle di Einstein, ‘Res’, n.5, 1993, pp.40-43;
4. Creatività, ‘Atque”, N.12, 1996, pp. 25-46;
5. Nuovi sapere di base e quadro generale di riferimento, in Il progetto della scuola che cambia, Bollettino del Centro di documentazione e didattica, Provincia di Firenze, Assessorato Pubblica Istruzione, n. 15, ottobre, 1998, pp.66-79;
6. La didattica e la rete, Pitagora Editrice, Bologna, 2000;
7. Rete e conoscenza collettiva, in C. Crespellani Porcella, S. Tagliagambe, G. Usai (a cura di), La comunicazione nell’era di Internet, Fondazione IBM-Etas, Milano, 2000, pp. 87-135
8. Multimedial Languages (in collaborazione con G. Usai), ‘Politica Internazionale’, No. 1/2, January-April 2001, pp. 201-208;
9. Reti e rappresentazione della conoscenza, ‘Nuova Secondaria’, n. 4, 15 dicembre 2001, anno XIX, pp. 19-22;
10. L’introduzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nell’insegnamento scolastico, ‘TD’, 2001, n.3, pp. 16-25;
11. L’intelligenza come realtà di confine, in M. D’Agostino, G. Giorello, S. Veca, a cura di, Logica e politica, Il Saggiatore, Milano, 2001, pp. 255-286;
12. Le intelligenze e i saperi, in A. Monasta (a cura di), Organizzazione del sapere, discipline e competenze, Carrocci, Roma, 2002, pp. 61-98;
13. Competencia y capacidades en la riforma del sistema escolar, ‘Rivista de educacion’, Numero extraordinario 2003, Educacion y futuro, pp.83-101;
14. La didattica e il progetto, ‘Tuttoscuola’, n. 428, gennaio 2003, pp. 21-24 e n. 429, febbraio 2003, pp. 28-37;
15. Riflessione sul tempo e i tempi nell’educazione, in Il tempo della ri-creazione, a cura di G. Barzanò e A. Pendezzini, Quite 2003, pp. 135-156;
16. Nuovi percorsi per l’obbligo formativo, Edizioni PLUS. Università di Pisa, Pisa, 2003;
17. Più colta e meno gentile. Una scuola di massa e di qualità, Armando, Roma, 2006;
18. Cultura classica e cultura tecnologica: un dialogo possibile, in U. Cardinale, a cura di, Essere e divenire del “Classico”, UTET, Torino, 2006, pp. 64-89:
19. La formazione della persona, ‘Ideazione’, n.6, 2006, pp. 71-77;
20. Dall’intelligenza individuale all’intelligenza connettiva, in M. Bertoldini, a cura di, La cultura politecnica 2, Bruno Mondadori, Milano, 2007, pp. 17-32;
21. Saperi in rete, ‘La Rivista dei libri’, anno XVIII, n°1, gennaio 2008, pp. 33-37;
22. V. Campione, S. Tagliagambe, Saper fare la scuola: il triangolo che non c’è, Einaudi, Torino, 2008;
23. Cultura classica e cultura tecnologica: un dialogo possibile, in U. Cardinale, a cura di, Nuove chiavi per insegnare il classico, Utet, Torino, 2008, pp. 238-264:
24. Reti e ambienti di apprendimento, in M.R. Capuano e M. Fusco, Autonomia e governance territoriale dei sistemi di istruzione e formazione professionale, Guerini e Associati, Milano, 2010, pp. 190-197;
25. Processi d’insegnamento e processi d’apprendimento, Prefazione a R. Faraldo, A. Saggion, Spazio, tempo e spazio-tempo in un ambiente di apprendimento. Un’applicazione nell’ambito della metodologia per l’integrazione delle scienze, Libreria internazionale Cortina, Padova, 2010, pp. 1-15:
26. Sulla definizione di abilità e competenze nell’ottica della riforma scolastica, Appendice C in R. Faraldo, A. Saggion, Spazio, tempo e spazio-tempo in un ambiente di apprendimento. Un’applicazione nell’ambito della metodologia per l’integrazione delle scienze, Libreria internazionale Cortina, Padova, 2010, pp. 250-255;
27. Scuola e nuove tecnologie, ‘Italianieuropei’, 3, 2012, pp. 83-90;
28. Postfazione a F. Paoli, C. Crespellani Porcella, G. Sergioli, Ragionare nel quotidiano. Argomentare, valutare informazioni, prendere decisioni, Mimesis, Milano-Udine, 2012, pp. 225-245;
29. I nuovi saperi tra scuola, università e lavoro (con M. Ceruti), in G. Capano e M. Meloni (a cura di), Il costo dell’ignoranza. L’Università italiana e la sfida Europa 2020, Il Mulino-AREL, Bologna-Roma, 2013, pp. 213-242;
30. La novità e il successo di un progetto formativo. Il caso della Facoltà di Architettura di Alghero, in E. Cicalò, a cura di, Progetto, ricerca, didattica. L’esperienza didattica di una nuova Scuola di Architettura, Franco Angeli, Milano, 2014, pp. 45-67;
31. Prefazione a G. Cepollaro, G. Varchetta, La formazione tra realtà e possibilità. I territori della betwenness, Guerini, Milano, 2014, pp. 9-53.