L’aspetto del marxismo sul quale ho in particolare concentrato l’attenzione nel corso dei miei studi è quello relativo alle conseguenze, soprattutto per il marxismo italiano, della sottovalutazione dei temi di filosofia della scienza introdotti da Geymonat già nell’immediato dopoguerra. Una maggiore attenzione a ciò che stava accadendo nel campo delle scienze della natura, soprattutto della fisica, letto in chiave epistemologica, come invitava a fare appunto Geymonat, avrebbe quanto meno favorito una maggiore capacità di individuare le contraddizioni insite nella svolta scientistica del marxismo, ossia nella tendenza a versare, come ha scritto Roberto Finelli nella sua proposta per il convegno, “l’opera di Marx in un contenitore strutturalista che attingeva alla epistemologia delle scienze, alla linguistica e all’antropologia; che faceva a pezzi, nella sua disposizione antisoggettivistica, ogni tematica ed ogni problematica del soggetto”. Soprattutto il fascino e il richiamo del multiversum dello strutturalismo althusseriano ha agito, secondo Finelli, “in profondità nel marxismo, rimuovendolo da una ispirazione dialettica e consegnandolo a un vertice teorico che ha radicalizzato e aggravato la crisid ella soggettività facendo venir meno il problema stesso del soggetto, individuale e sociale. […] L’althusserismo, arricchito da un fertile humus antisoggettivistico lacaniamo, si colloca dunque come sliding door, come porta girevole all’interno del marxismo. Lo rimuove da ogni traccia di tradizione dialettica e lo disloca su un piano teorico che nella valorizzazione univoca della struttura cancella ogni pratica e teoria dell’azione politica, della mediazione e dell’organizzazione dio soggettività”.

Va ricordato a questo proposito che Geymonat aveva affidato proprio a me il compito di individuare le debolezze di questo programma teorico, intuendone i rischi. Nel capitolo dedicato a Louis Althusser nel volume VII della Storia del pensiero filosofico e scientifico, uscito nel 1976, individuavo  le carenze del suo programma nell’accantonamento dei problemi tradizionali della gnoseologia e dell’epistemologia, che venivano sostituiti “da nuovi quesiti, riguardanti ‘l’inerenza  a una organizzazione prodotta della pratica organizzata che l’ha prodotta’ (pag. 97) e nel fatto che, in seguito a ciò, ‘l’effetto di conoscenza avviene allora nella dualità o duplicità dell’esistenza del sistema, che è detto svilupparsi nel discorso scientifico da una parte, e dell’esistenza delle forme d’ordine del discorso dall’altra, più precisamente nel gioco (nel senso meccanico del termine) che costituisce l’unità di scarto del sistema e del discorso. L’effetto di conoscenza è prodotto come effetto del discorso scientifico, che esiste solo come discorso del sistema, vale a dire dell’oggetto considerato nella struttura della sua costituzione complessa” (p.100).

Commentando questo approccio sottolineavo che “questo sganciarsi della conoscenza dalla rappresentazione è, nello stesso tempo, un abbandono di ogni istanza antropomorfica. La tematica della rappresentazione finiva infatti col ruotare, in una maniera o nell’altra, sempre attorno all’uomo, nella misura in cui essa appariva giocata tutta sula ricerca di un continuo equilibrio tra il rinvio delle condizioni di possibilità delle cose fin nell’interiorità dei fenomeni e il reperimento delle condizioni di possibilità della rappresentazione fin nell’interiorità dello spirito. Antiontologismo, antiempirismo, antipsicologismo e critica serrata della tematica della rappresentazione finiscono così col convergere nell’elaborazione di un programma, il cui obiettivo finale consiste nel chiarimento dell’azione dell’organizzazione non già sull’organizzato (perché in tal caso la struttura verrebbe ipostatizzata e si opporrebbe al dato come il fondamento si oppone al fondato) bensì dentro di esso, cosicché il gioco delle forme d’ordine possa avere qualche rapporto con ciò che organizza e struttura senza però essergli fondo o limitarsi semplicemente a rifletterlo” (pag. 101). E a conclusione di questa analisi osservavo che “il sistema teorico althusseriano finisce così coll’assomigliare a una scommessa metodologica condannata a rimanere sospesa in un gioco di rinvii all’infinito, in cui non esistono se non strutture e elementi supplenti, che esercitano cioè la funzione di luogotenenti nei confronti gli uni degli altri. Le ragioni del fallimento del progetto althusserianio di costruzione di una nuova epistemologia, fondata sui principi della filosofia marxista, vanno, a nostro giudizio, ricercate proprio in queste ambiguità e carenze determinate dalla ristrettezza e debolezza degli strumenti metodologici impiegati” (pag. 126).

Rileggendo oggi queste mie pagine giovanili mi rimprovero di non avere messo in risalto, con più forte determinazione e maggiore chiarezza, la contraddizione di un progetto di rilettura del marxismo che voleva essere scientifico e che fondava questa sua pretesa di scientificità proprio nell’espulsione  dalla pratica teorica di ogni analisi riguardante il soggetto e il ruolo dell’osservatore. E lo faceva proprio in un momento in cui la pratica scientifica reale, quella dei ricercatori militanti nel campo delle scienze della natura, cominciava, al contrario, a prendere coscienza e ad assumere consapevolezza sempre più forte dell’imprescindibilità della relazione osservatore/osservato.

Come osservava infatti Dirac commentando ciò che era accaduto in fisica in seguito alla rivoluzione quantistica “un’osservazione è così necessariamente accompagnata da una certa perturbazione dell’oggetto in esame: Potremo pertanto definire grande un oggetto quando la perturbazione che accompagna la sua osservazione da parte nostra possa ritenersi trascurabile, mentre lo potremo definire piccolo se tale perturbazione non può essere trascurata. Questa definizione risulta pure in stretto accordo con il comune significato di grande e piccolo. Comunemente, adottando opportune precauzioni, si suppone di poter ridurre quanto vogliamo la perturbazione che accompagna la nostra osservazione. I concetti di grande e di piccolo risultano allora concetti puramente relativi e si riferiscono sia al grado di finezza dei nostri mezzi di osservazione, sia all’oggetto che si considera. Per dare allora alla dimensione un significato assoluto, quale è richiesto per una qualunque teoria della struttura intima della materia, dobbiamo supporre che esista un limite per il grado di finezza dei nostri mezzi di osservazione e di conseguenza un estremo inferiore per l’entità della perturbazione che accompagna l’osservazione stessa, limite che è inerente alla natura stessa delle cose e che non può essere superato mediante tecniche migliori o maggior perizia da parte dell’osservatore. Se l’oggetto in esame è tale che l’inevitabile perturbazione che ne limita l’osservazione sia trascurabile, allora l’oggetto sarà grande in senso assoluto e potremo applicare ad esso la meccanica classica. Se, d’altra parte , tale perturbazione non è trascurabile, allora l’oggetto sarà piccolo in senso assoluto e avremo bisogno di una nuova teoria per trattarlo”.

In questa visuale la realtà da studiare si snoda nel rapporto tra l’osservatore e il tutto altro da sé, tra l’osservatore e  il “sistema” nell’espressione più generalizzante, comprensivo di tutte le possibilità che possono essere associate a ciò che si esperisce, per cui il proposito di considerare il “sistema” in generale, e il sistema oggetto della conoscenza scientifica in particolare, come sganciato dall’osservatore e indipendente da esso si scontra col fatto che tutto ciò che un osservatore descrive è comunque Observer dependent.

La conclusione che può essere tratta dal quadro qui sommariamente tracciato è  che l’impostazione antisoggettivistica e antiempiristica di Althusser e Lacan e dello strutturalismo in generale, che pretendeva di dare al marxismo una nuova dignità scientifica astraendo da ogni riferimento alla funzione del soggetto e al ruolo dell’osservatore, si sviluppò ed esercitò il suo fascino sul marxismo italiano proprio nel momento in cui, come si è detto, quella pratica scientifica alla quale ci si appellava per legittimare questa operazione di “rifondazione” stava andando in direzione esattamente contraria.

Risulta così pienamente confermata l’analisi critica che Geymonat fa degli sviluppi del marxismo italiano in Paradossi e rivoluzioni. Intervista su scienza e politica, a cura di G. Giorello e M. Mondadori, del 1979, dove la fragilità di questi sviluppi e la loro incapacità di resistere alle seduzioni antisoggettivistiche e antiempiristiche provenienti dall’esterno venivano fatte risalire all’incapacità di aprire “un dibattito serio, come speravo, sui rapporti tra marxismo, neopositivismo e pratica scientifica” (pag. 104). In particolare questa incapacità aveva avuto come conseguenza l’impossibilità di misurarsi con un concetto di intuizione “che viene dopo la costruzione delle teorie”, “un’intuizione delle nozioni preteoriche molto più profonda, sottile e articolata di quella che avevamo in precedenza” (pag. 85) e con una nozione di osservazione e di conoscenza “il cui carattere oggettivo non ha nulla ha che vedere con l’assolutezza, ma piuttosto con il successo delle pratiche che su di esse si basano. È a questo livello che faccio appello al criterio della prassi: esso mira a caratterizzare la conoscenza oggettiva come quella che produce pratiche riuscite, e riuscite proprio perché tale conoscenza costituisce una buona approssimazione alla verità” (pag. 120).

L’analisi critica compiuta da Geymonat  in questa intervista si concludeva con una lucida diagnosi delle conseguenze alle quali portava inevitabilmente la sottovalutazione dell’importanza teorica di un’epistemologia equilibrata e rispettosa delle prerogative della pratica scientifica: “Da un lato non ci sono dubbi che vadano rifiuitate alcune versioni estreme della tesi secondo cui la filosofia della scienza dovrebbe proporre standard valutativi, dovrebbe cioè avere una portata normativa rispetto alla pratica scientifica. Queste versioni estreme non sono che un sintomo della ricorrente tentazione dei filosofi di mettere la pratica scientifica in un letto di Procuste. D’altra parte, la rinuncia a ogni versione di questa tesi ci spinge ineluttabilmente nelle braccia del «Tutto va bene» di Feyerabend. E allora io credo che vada contrapposta alla miseria degli standard valutativi metateorici la ricchezza degli standard valutativi che sono stati effettivamente elaborati entro la stessa pratica scientifica. Scopriremo allora che in buona parte dei casi significativi di mutamento scientifico, il programma di ricerca abbandonato risulta degenere alla luce dei suoi stessi standard, oltre che naturalmente alla luce di quelli del programma rivale. Inoltre, gli stessi standard possono essere criticati – e di fatto lo sono stati nel corso delle rivoluzioni scientifiche – e alcuni, in questo libero gioco di critiche, possono rivelarsi superiori ad altri” (pag. 122).

Gli sviluppi del marxismo italiano avrebbero potuto forse avere un esito differente se i suoi esponenti avessero raccolto almeno in parte i suggerimenti insiti in questo tipo di approccio, anziché cinguettare con la tradizione idealistica in cui si erano per lo più formati o farsi attrarre da un concetto di epistemologia come quello del primo Althusser o, in alternativa, da quello della revisione critica della sua precedente impostazione da lui stesso proposta negli Éléments d’autocritique del 1974. A differenza della prima questa seconda accezione di epistemologia, lo ricordiamo, era tutta incardinata sull’assunto di una rigida distinzione della filosofia dalle scienze, basata sul presupposto che la filosofia enuncia proposizioni che non possiedono lo stesso statuto di quelle scientifiche, che non sono cioè puramente teoriche, come queste ultime, bensì teorico-pratiche, destinate a produrre effetti sul piano della lotta di classe.

In fondo si sarebbe trattato di inquadrare e interpretare correttamente la “crisi del soggetto”, a cui si è fatto ripetutamente riferimento da parte di diversi marxisti italiani, assumendola e valutandola come crisi fisiologica e naturale, dovuta alla crescita della consapevolezza della sempre maggiore articolazione e complessità sia del concetto di “soggetto” in sé considerato, sia della sua relazione con gli oggetti della sua conoscenza e delle sue pratiche.

Pubblicazioni

  1. L’interpretazione materialistica della meccanica quantistica. Fisica e filosofia in URSS, Feltrinelli, Milano, 1972;
  2. I presupposti materialistici del marxismo, in E. Bellone, L. Geymonat, G. Giorello, S. Tagliagambe, Attualità del materialismo dialettico, Editori Riuniti, Roma, 1974, pp. 125-188;
  3. Louis Althusser, in L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, cit., pp. 78-126;
  4. Scienza, filosofia, politica in Unione Sovietica. 1924-1939, Feltrinelli, Milano, 1978;
  5. Materialismo e dialettica nella filosofia sovietica, Loescher, Torino, 1979;
  6. Scienza e marxismo in Urss, Loescher, Torino, 1979;
  7. Monolitismo della cultura sovietica?, ‘Critica marxista’, n. 3, 1982;
  8. Marx: sui metodi di elaborazione del dato empirico, ‘Critica marxista’, 2-3, 1983;
  9. Marx  a  Babele:  orgoglio  (e  pregiudizi)  della  ragione,  in  AAVV, Marx,  un  secolo,  Editori  Riuniti,  Roma, 1983, pp. 273-308;
  10. Realismo senza materia? La funzione imprescindibile della categoria di materia in Marx, in G. Baratta, E. Giancotti, L. Piccioni (a cura di), Attualità di Marx, Unicopli, Milano, 1986, pp. 343-380;
  11. Gramsci, Buharin e il materialismo dialettico sovietico, in A.A.V.V., La questione meridionale, Edizioni del Consiglio regionale della Sardegna, Cagliari, 1987, pp. 220-254;
  12. Scienza e potere in Russia e in Unione Sovietica, ‘Critica marxista’, 1988, n.6, pp. 29-50;
  13. Il  potere  staliniano  e  l’intelligencija  tecnico-scientifica,  in  A.  Natoli  e  S.  Pons  (a  cura  di), L’età  dello stalinismo, Editori Riuniti, Roma, 1991, pp. 211-238;
  14. Bild-Theorie. Zur Logik der konstruktiven Einbildungskraft im Marxschen Werk, ‘Dialektik’, 1991, n. 2, pp. 25-42;
  15. Il marxismo tra oriente e occidente, in G. Labica, Dopo il marxismo-leninismo, Edizioni Associate, Roma, 1992, pp. 9-55;
  16. Ludovico  Geymonat,  filosofo  della  contraddizione,  in  A.A.V.V., Omaggio  a  Ludovico  Geymonat,  Muzzio, Padova, 1992, pp. 61-96;
  17. Engels e il problema del rapporto mente-corpo, in M. Cingoli, a cura di, Friedrich Engels cent’anni dopo. Ipotesi per un bilancio critico, Teti editore, Milano, 1998, pp. 74-119;
  18. V.  Mironov-S. Tagliagambe, Il  destino  del  marxismo  in  Russia:  dall’idolatria  al  rifiuto, Luiss  Edizioni, Collana di studi metodologici, Roma, 2001;
  19. L’eredità culturale e politica di L. Geymonat, in AAVV, Il pensiero unitario di Ludovico Geymonat, Edizioni Nuova Cultura, Teramo, 2004;
  20. Bogdanov tra costruttivismo e scienza dell’organizzazione, in A.A. Bogdanov, Quattro dialoghi su scienza e filosofia, con scritti di E. von Glasersfeld, M. Stanzione, S. Tagliagambe, Odradek edizioni, Roma, 2004, pp. 95-137;
  21. Epistemologia e materialismo dialettico per L. Geymonat, in AAVV, Materialismo dialettico e conoscenza della natura, Aracne, Roma, 2004, pp. 131-195:
  22. Postfazione a E. Bitsakis, La natura nel pensiero dialettico, PonSinMor, Torino, 2009, pp. 343-392;
  23. Gli effetti deleteri della sottovalutazione della svolta epistemologica del 1970, in G. Vacca, a cura di, La crisi del soggetto. Marxismo e filosofia in Italia negli anni Settanta e Ottanta, Carocci, Roma, 2015, pp. 29-48.